Potenza di un tamburello

13 Ott 2021 | Vita

Dal 5 all’8 ottobre, sette artisti della band internazionale Gen Rosso hanno visitato i profughi ospiti del centro di accoglienza per famiglie di Borići, in Bosnia-Erzegovina: la loro esperienza con i migranti che tentano la rotta balcanica.

 

Hanno raggiunto la città di Bihać, in Bosnia Erzegovina, nella parte nord-occidentale del paese. Lì, le temperature sono già quelle dell’inverno nostrale. Il confine con la Croazia e, quindi, con l’Unione Europea, mèta dei migranti che scelgono la rotta balcanica, dista solo una quindicina di chilometri. È in quella città che sette artisti della band internazionale Gen Rosso sono stati ammessi nel centro di accoglienza temporanea di Borići, gestito dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, che fornisce alloggi, servizi essenziali e di base per i richiedenti asilo e i migranti vulnerabili che tentano di superare il confine croato.

Nel centro di accoglienza di Borići vivono esclusivamente famiglie con minori e altre persone fragili. Vengono dall’Iran, dal Marocco, dall’Afghanistan. Raccontano Ygor e Michele del Gen Rosso: «Appena arrivati, mentre aspettavamo di entrare, si sono avvicinati alcuni bambini. I loro occhi brillavano di curiosità. Allora, abbiamo cominciato a suonare un tamburello. Si è avvicinata una mamma, poi un papà. Ci hanno chiesto: di dove siete? Tutto è cominciato così, con semplicità…».

L’avventura del Gen Rosso risale alla settimana scorsa. È nata dal desiderio e dalla volontà di essere vicini agli ultimi, ai dimenticati. «Non è una cosa nuova per noi portare la nostra arte nelle periferie del mondo. – spiegano i due musicisti – Quando siamo venuti a conoscenza di quello che si vive a Bihać, abbiamo sentito che dovevamo rispondere a questo grido di abbandono, dando speranza, prestando la nostra voce per dire: Europa, facciamo qualcosa per i nostri fratelli e le nostre sorelle!». 

Così, sono partiti in sette, con il proposito di entrare in quella realtà in punta dei piedi, di portare un po’ di amore ai rifugiati e ai volontari che lavorano nel campo. «Pensavamo di strutturare i laboratori come facciamo di solito, distribuendosi in gruppi. Ma lì abbiamo capito  che non bisognava dividersi ma stare insieme tutto il tempo, e così è stato» spiega Ygor. 

Inaspettatamente, la distanza si è azzerata e la sala, non un teatro ma il refettorio del centro, si è trasformata in territorio ospitale, luogo di scambio, di dialogo improvvisato attraverso l’arte. Racconta Michele: «Prima, abbiamo cantato e ballato noi, poi loro ci hanno offerto una danza dell’Iran. Noi abbiamo proposto una nostra canzone, e loro un pezzo afgano. Sembrava di stare ad una di quelle feste di compleanno in famiglia dove ognuno contribuisce con quello che sa fare». Così, hanno trascorso due intere mattinate e i laboratori sono stati anche l’occasione per accogliere confidenze. «Una donna, Mariam, dell’Iran, ci ha ringraziato – ricorda Michele – le brillavano gli occhi, “È stato bellissimo”, ci ha detto, “noi siamo stanchi, molto stanchi di vivere in queste condizioni, ma oggi, con voi, siamo stati davvero felici”. La musica ha questo potere, di unire i cuori e le persone, i popoli».

Da parte loro, i sette artisti del Gen Rosso sono rimasti colpiti anche dalla capacità di fiducia di questa gente: «Da subito, le mamme ci hanno messo in braccio i loro bambini… Noi abbiamo preso il gesto come a dire: “ci fidiamo di voi”. È stata un’esperienza forte!».

I laboratori del Gen Rosso con le famiglie di profughi sono stati possibili grazie alla collaborazione nata con il Jesuit Refugee Service (Servizio dei Gesuiti per i rifugiati) che, accanto ad organizzazioni non governative, lavora dentro il centro di Borići.

Ora, la speranza è che l’esperienza si possa ripetere presto: «Speriamo di poter tornare agli inizi di novembre, sempre con un piccolo gruppo di noi, magari visitando anche un altro centro, quello che a Bihać ospita i ragazzi e gli uomini soli. Il sogno sarebbe poter realizzare insieme a loro un concerto che possa portare all’attenzione di tanti e, soprattutto, delle istituzioni europee il dramma vissuto da queste persone».

Share This