Sentiero meditativo
Porta del Cielo

Il vostro camminare non sia semplicemente un passare per i luoghi della vita in modo superficiale, senza cogliere la bellezza di ciò che incontrate, senza scoprire il senso delle strade percorse, catturando brevi momenti, esperienze fugaci da fissare in un selfie. Il turista fa così. Il pellegrino invece si immerge con tutto sé stesso nei luoghi che incontra, li fa parlare, li fa diventare parte della sua ricerca di felicità.
Papa Francesco
La vita è un cammino, dicono i sapienti, la strada si fa camminando. Il sentiero meditativo Porta del Cielo nasce dal desiderio di far riscoprire il valore spirituale del camminare, seguendo la dimensione umana del passo e del suo ritmo. Che si percorra in solitudine o in compagnia, il sentiero Porta del Cielo vuole essere l’occasione per aprire una “porta” di contatto con la propria interiorità o, per chi crede, di ascolto e dialogo con l’Eterno. Proponiamo, come compagna di viaggio lungo le 10 tappe, Maria di Nazareth, la madre di Gesù che, nella sua vita, ha percorso coraggiosamente, infinite volte, le strade polverose della Palestina, seguendo suo Figlio o quella voce che le parlava dentro.
Ad ogni tappa, identificata da un numero e da un’opera dell’artista Ciro (Roberto Cipollone), attraverso un Qrcode sarà possibile fermarsi, leggere una versetto tratto dai Vangeli ed un pensiero offerto da amiche e amici cristiani di varie confessioni o di altre religioni, per arricchire la riflessione o la meditazione. C′è una magnifica avventura che vi attende!
Buon cammino in compagnia di Maria!
Scheda tecnica
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- Lunghezza: 4,5 km
- Tappe: 10
- Tipologia: anello
- Difficoltà: semplice
- Tema: spirituale | arte e cultura | natura
- Mappa: Scarica la mappa
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Prima di cominciare
Il senso dei cammini
di Luigino Bruni
Homo viator. Per decine di millenni l’homo sapiens è stato nomade e viandante. Seguivamo il ritmo delle stagioni e delle fioriture, inseguivamo la pista del daino e del bisonte, tornavamo assetati all’oasi e alla sorgente, esperti delle transumanze. Lo abbiamo fatto per sopravvivere, correvamo per fuggire alla morte. Poi, a un certo punto, in quel territorio solcato e segnato dai soli tempi naturali della vita, abbiamo iniziato a scoprire spazi diversi, a riconoscere luoghi speciali; e abbiamo iniziato a segnare rocce, a erigere steli, costruire altari. Nacque il sacro. Lungo le antiche piste iniziammo così a fermarci non solo per raccogliere, cacciare, ripararci, bere; cominciammo a fermarci in altri luoghi perché attratti da una presenza spirituale che lì si manifestava e mutava il paesaggio. Lo spazio divenne qualità. Da quel momento non ci bastò più mangiare, ripararci, bere e riprodurci. Non ci bastò più camminare sulla traccia del cervo. Volevamo conoscere il mistero della cerva, della sua sete e dei suoi percorsi, scoprire dove finivano dopo la morte coloro che amavamo, sapere chi muoveva il sole e le altre stelle. Iniziammo a fare domande nuove alle cose, e così cominciammo a vedere gli dèi. Il mondo cambiò per sempre, si riempì di parole mute, di linguaggi nuovi, di simboli. Imparammo lingue nuove per parlare con la natura, con i demoni e con gli angeli. Molte, quasi tutte, ormai, le abbiamo dimenticate.
Sono trascorsi millenni, siamo cambiati molto, ma non abbiamo mai smesso di camminare. Per le guerre, per i commerci, per amore, abbiamo continuato a camminare. Anche per vedere Dio nei suoi luoghi. Quando si giungeva alla soglia del tempio, di un altare, di un’edicola nei crocicchi delle strade – le edicole si ponevano negli incroci perché si pensava, nei popoli italici, che quelli fossero i luoghi degli spiriti – si entrava in un altro tempo, si sentivano vivi i nostri morti, ci sentivamo parenti dei santi, ci venivano donate ali d’aquila per spiccare folli voli fino a provare a sfiorare il paradiso. Quella soglia era la porta del cielo, solo toccarla significava vincere la morte: solo per qualche ora, ma vincerla veramente. Ci dimenticavamo il dolore del vivere, ci scordavamo di essere poveri e, in quei giorni, il nostro cuore provava l’ebrezza di trovarsi alla stessa altezza di quello degli angeli. Insieme a nuove paure, imparammo nuove gratitudini. L’esperienza del sacro era l’esperienza del sublime, quindi transitoria, puntuale ma assoluta, incarnata nello spazio e nel tempo, avveniva solo lì, e quindi presto terminava. Ed era meraviglioso, qualche volta pauroso, sempre tremendo. Era meravigliosa perché eccezionale e stra-ordinaria.
Per questo non c’era viaggio più amato del pellegrinaggio; ci piacevano le case eleganti e immaginate dei signori, ma soprattutto ci piaceva la casa di Dio. Oggi abbiamo dimenticato a riconoscere i segni dei luoghi sacri, ma, quando decidiamo di iniziare un cammino – e lo facciamo sempre più – non andiamo verso un punto casuale: cerchiamo un luogo segnato, non ci basta lo spazio, vogliamo i luoghi. Noi abbiamo dimenticato Dio, gli angeli, lo spirito, ma il nostro DNA spirituale non lo ha dimenticato. E ci fa mettere in cammino, ancora oggi.
I pellegrinaggi medioevali sono un fenomeno antico che riprende tradizioni precedenti aggiungendovi alcuni elementi tipici del cristianesimo. Quella di pellegrino era una condizione che accomunava ecclesiastici, nobili, poveri insieme a indebitati insolventi in fuga. Le vie dei pellegrini tracciarono le arterie commerciali della nuova Europa, punteggiate da locande e ostelli attorno ai quali nacquero nuovi villaggi, città e fiere. Sulle stesse Vie Francigena e Lauretana il viaggio del pellegrino si incontrava con quello dei mercanti: commercianti di merci e beni diversi e uguali, moventi simili e distanti, una biodiversità di cose e di motivazioni che ha generato l’Europa. L’Europa è nata nei calzari degli innumerevoli pellegrini che l’hanno solcata, sognata e segnata per un millennio e oltre. Prima della creazione degli Stati nazionali, i cristiani si sono incontrati lungo le strade, lì hanno ascoltato lingue diverse, hanno praticato l’antica e nuova legge dell’ospitalità, hanno imparato che nessun uomo è così lontano da non essere prossimo. Quel sentire ancora oggi qualcosa di famigliare passando dal Portogallo alla Puglia, dalla Spagna alla Provenza, dalle Marche alla Toscana, è ciò che resta della fede viandante dei nostri avi, che sono stati europei prima di essere italiani o francesi. Ci sono voluti molti secoli di viaggi, di incontri, di ferite e di benedizioni per imparare a incontrare l’altro a meno di un metro di distanza, quella distanza breve che è uno dei patrimoni dell’umanità – non dimentichiamolo nel tempo delle distanze riallungate. Alla stabilitas loci del monachesimo il pellegrino rispondeva con l’homo viator. Il viaggiare divenne il labora dei pellegrini – travel, trip e travaglio hanno la stessa radice (-tr).
Il pellegrino è un attraversatore di luoghi, dove ogni dettaglio è unico e irreperibile, nessun metro è uguale all’altro. Non c’era ancora il viaggio come attraversamento di spazi razionali come quelli delle mappe. Nel viaggio del pellegrino la velocità e il raggiungimento della mèta sono meno importanti del viaggio come incontro del diverso, genti e luoghi. Rimpareremo ad incontrare l’altro se impareremo ad incontrare i luoghi. Buon cammino, buona strada.
Prima tappa
“Ecco la Serva del Signore, avvenga a me secondo la tua parola”. (Lc 1,28)

Maria, la ragazza di Nazaret, ha ricevuto dall’angelo l’annuncio di ciò che costituisce il più grande carisma nella storia d’Israele: diventare madre del Messia, il profeta ultimo atteso da tempo, e di origine divino, il Figlio dell’Altissimo. Maria non si inorgoglisce ma si rende disponibile a tale volere divino: “Ecco la Serva del Signore”. Si tratta di un vero titolo attribuito a grandi personalità della storia d’Israele, come Abramo, Mosè, Davide… Chiamandosi “Serva del Signore” Maria si pone tra questi Servi di Dio, e si mostra disponibile al disegno divino a favore del Suo popolo e dell’umanità.
E quando aggiunge: “avvenga a me secondo la Tua parola”, non esprime un atteggiamento di rassegnazione ad un destino inevitabile, ma il fermo desiderio che si attui tale volontà di Dio. Ella desideri con tutto il suo cuore che la parola dell’angelo si realizzi.
Gérard Rossé, biblista
Seconda tappa
“In quei giorni Maria si alzò ed andò in fretta” (Lc 1, 39)
Maria andò subito a trovare un’altra donna, a visitare una mamma rimasta incinta, come lei, per intervento divino. Colpisce quell’«in fretta», che ricollega Maria a molte altre donne della Bibbia. Parte come la moglie di Geroboamo (1Re 14), come la donna sunammita e il profeta Eliseo (2Re 4), come Abigail con Davide (1Sam 25). La Bibbia e i Vangeli sono popolati di donne che camminano, si spostano, quasi sempre di fretta. Le donne le riconosciamo, nella Bibbia, prima di tutto dai loro piedi – come non pensare alla Madonna dei Pellegrini di Caravaggio, con i piedi impolverati? Le donne camminano e corrono; amano con le mani e anche con i piedi che conoscono bene perché se ne prendono cura, dei propri e soprattutto di quelli dei figli, degli altri – ieri, e oggi. Hanno imparato Dio camminando e correndo, inseguendo una traccia di vita, come la cerva del Salmo.
Questo tipo di amore-agape si chiama Maria. La fede e la pietà continuano la loro corsa nel mondo perché molte donne (e qualche volta anche alcuni uomini) non hanno smesso di correre lungo la via. In questa comune corsa, i piedi delle donne corrono diversamente e di più. La fede non termina quando smettiamo di credere: termina quando smettiamo di camminare.
Luigino Bruni, economista

Terza tappa
“A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?” (Lc 1,43)

Maria è anche icona della donna saggia, concreta e intelligente, che legge dentro le relazioni, e che poi opera. È l’esperta dei rapporti primari e della loro cura, operatrice di pace. Tessitrice di trame di bene al servizio della vita. Le donne bibliche hanno un istinto per la cura delle relazioni. Istruite dalla vita ai suoi tempi e a quelli del corpo, sanno che nei rapporti importanti il tempo è il fattore decisivo. Il tempo delle donne non è quello degli uomini – per loro il tempo e lo spazio sono amici e alleati, ma in certi momenti (come quando si aspetta un bambino) il tempo è superiore.
Maria nei secoli è diventata molte cose, ma è molto bello e importante che per il vangelo di Luca il suo primo gesto fuori casa sia la visita a un’amica, un camminare verso un’altra persona, per portarle il suo saluto – che sia quindi un evento di sororità. Non sappiamo perché Maria sia andata da Elisabetta, Luca non ce lo dice, perché l’evangelista costruisce con questo dialogo un altro brano della sua teologia del rapporto Gesù-Giovanni, senza chiarirci la ragione di questa visita, di questa visitazione, come l’ha chiamata la Chiesa. Forse perché molte donne si incontrano per la sola ragione inscritta in quell’incontro, intrinseca a quel bene relazionale, perché incontrare e salutare un’amica è una ragione sufficiente per partire in fretta, senza il bisogno di nessun altro motivo esterno a questo abbraccio di corpi, di guance e di lacrime. «A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?»: lo devi, Elisabetta, soltanto alla bellezza di una visita a una amica. E ti basta, e ci basta».
Luigino Bruni, economista
Quarta tappa
“Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente” ( Lc 1,49)
È con grande emozione che scrivo queste righe e porto la voce di due donne che hanno cambiato il corso della storia: Maria, la madre di Gesù; e Anna, la madre del profeta Samuele. Entrambe donne che sfidano le norme stabilite dai contesti culturali in cui vivono e che, per la loro profonda fede in Dio e nella sua volontà, ospitano nel loro grembo miracoli di vita. Ma non solo: esse CANTANO anche la grandezza del Signore. Sanno che la vita che hanno portato nel loro corpo non è solo biologia, ma intervento divino, degno di lode. Osano lodare, nonostante il mondo le abbia messe da parte come donne. Osano creare una preghiera che raggiunge Dio e che diventa eterna di generazione in generazione. Il canto di Anna e il Magnificat uniscono ebrei e cristiani nella voce di tante donne che danno alla luce la poesia e il miracolo.
Nell’antico Israele, la donna sterile era considerata un ramo secco e un affronto alla società. Anna, tuttavia, si affida al Dio della vita e recita questa preghiera: «Signore degli eserciti, se vorrai considerare la miseria della tua schiava e ricordarti di me, se non dimenticherai la tua schiava e darai alla tua schiava un figlio maschio, io lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua vita». (1 Sam 1,11). E Dio accolse il grido di questa donna umiliata, dandole un uomo come Samuele. Ciò che era impossibile agli occhi umani divenne una realtà palpitante in quel bambino che ella avrebbe consacrato al Signore. Anna confida in Dio, dal quale si aspetta un ordine giusto al di là delle circostanze che la circondano. Un figlio in Israele era il riconoscimento implicito della persona e del suo essere, in questo caso, della sua femminilità in quanto tale. Anna fa della sua fede il fondamento della salvezza. È la donna che vive della Provvidenza del Signore. Il canto di Anna è una bellissima professione di fede. Invoca il Nome di Dio in una grammatica che afferma il carattere infinito della sua fiducia nel Creatore. Per ricompensare il miracolo della nascita di suo figlio, Anna offre il suo bambino, il piccolo Samuele, al Signore. Osa pregare così: «Il mio cuore esulta nel Signore, la mia fronte s’innalza grazie al mio Dio. Si apre la mia bocca contro i miei nemici, perché io godo del beneficio che mi hai concesso» (Primo Libro di Samuele 2,1-10). Questo canto di ringraziamento che lei eleva a Dio sarà ripreso e rifondato da un’altra madre, Maria, che, pur rimanendo vergine, generera per opera dello Spirito di Dio. E il suo canto lo riascoltiamo nel Magnificat della madre di Gesù, come se ascoltassimo di nuovo quel cantico di Anna che molti chiamano “il Magnificat dell’Antico Testamento”. È una professione di fede pronunciata da queste due madri nei confronti del Signore della storia, che difende gli ultimi, i miseri e gli infelici, gli offesi e gli umiliati.
Maria celebra con il canto del Magnificat, le meraviglie che Dio ha realizzato in lei. La sua gioia nasce dall’aver sperimentato personalmente lo sguardo benevolo che Dio ha rivolto a lei, creatura povera e priva di qualsiasi apparente influenza sulla storia. Entrambe, Maria e Anna, pur sapendo di essere piccole in una società che non le guarda, osano vivere e manifestare la celebrazione della grandezza di Dio. Tutti e due i canti, anche se diversi, sono alimentati dall’azione salvifica di Dio nella storia.
Rabina Silvina Chemen, Buenos Aires, Argentina

Quinta tappa
“Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima”. (Lc 2,34-35)

Riflettendo sul nostro essere discepoli di Cristo nel mondo oggi, questo passaggio ci fa dire: c’è un costo, seguire Gesù non è facile. Come Maria, ognuno di noi è chiamato a essere un “portatore di Cristo”. Perciò, queste parole pronunciate da Simeone a Maria si applicano a tutti noi. Se desideriamo partecipare nelle gioie immense di coloro che servono Cristo, allora dobbiamo anche essere pronti ad affrontare i dolori e i fallimenti.
I nostri cuori saranno trafitti, e come Maria – in piedi, ai piedi della croce – la nostra testimonianza sarà una veglia silenziosa e una determinazione a perseverare, a stare.
Prestiamo attenzione, allora, a quelle fonti di grazia rigenerante che ci vengono offerte attraverso la Parola, nell’adorazione, per via del sacramento e nella Comunione, che ci permettono di perseverare, di migliorare, di ricominciare, di amarci l’un l’altro.
Stephen Cottrell, Arcivescovo Anglicano di York
Sesta tappa
“Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. (Lc 2,19 cf. 2,51)
Quest’osservazione dell’evangelista scritta due volte alla fine del racconto della nascita e dell’infanzia di Gesù fa pensare che la madre di Gesù “conservava” il ricordo degli eventi vissuti per poi raccontarli più tardi.
In realtà l’intenzione dell’evangelista è diversa. Maria conservava nella sua memoria i fatti vissuti per penetrarne il senso; è il cammino tipico di una fede che cresce nella comprensione del Mistero divino che appunto la madre di Gesù sta vivendo.
Infatti l’evangelista completa con un verbo greco symbollein tradotto con interpretare, e spesso anche con meditare . Il verbo greco (da cui proviene la parola simbolo) significa mettere insieme, ravvicinare due parti. Maria fa in se stessa un confronto che fa emergere il senso di quello che vive. Maria dunque impegna la sua intelligenza e volontà per capire sempre meglio gli eventi ai quali ha partecipato in prima persona. Luca presenta la madre di Gesù come tipo del credente e tipo della Chiesa che vive della parola che ha ricevuta da Dio e interpreta i fatti che vive alla luce della fede.
Gerard Rossé, biblista

Settima tappa
“Fate quello che vi dirà” (Gv 2,5)

Maria, Gesù e i suoi discepoli furono invitati ad un matrimonio a Cana. Durante la festa, Maria notò il disagio della famiglia dello sposo perché il vino era esaurito. Si diresse da Gesù, per fargli notare l’imbarazzo degli sposi. Fino allora Gesù non aveva rivelato a nessuno la sua identità. Maria era l’unica che lo capiva e sapeva che era il Figlio dell’Altissimo. Ma rimase in silenzio, contemplando tutto questo nel suo cuore.
Il Vangelo riporta poche parole di Maria durante la sua vita terrena in questo matrimonio diede un comando, rivolto ai servi: “Fate quello che vi dirà”. Gesù chiese loro di riempire d’acqua le giare e di darne da bere al capo del banchetto.
Fecero ciò che chiese loro. Riempirono i vasi fino a traboccarli. Non sapevano che Gesù è Dio, le sue Parole sono le Parole di Dio stesso. Sono rivolte anche oggi a te e a me. Fare tutto quello che ci chiede, anche se sembra a noi strano come è successo ai domestici che hanno servito l’acqua invece del vino però chi ne ha bevuto ha assaporato un ottimo vino. Solo loro furono consapevoli di quanto era accaduto. Avevano ascoltato e fatto secondo la sua Parola, e l’imprevisto era accaduto.
Questo matrimonio è l’icona della Chiesa del Nuovo Testamento: Cristo, la Vergine, i discepoli e il popolo gioioso. Il matrimonio è una gioia. Gesù è venuto per gioire e per dare gioia, per cambiare la natura delle cose, per dare un sapore delizioso all’acqua che è senza gusto.
E Maria è la nostra guida per farci entrare in rapporto con Gesù, ci dice: “Fate quello che vi dirà”, invitandoci a compire tre azioni: ascoltare, “Possiate oggi ascoltare la sua voce: non indurite il vostro cuore” (Sal 94,7-8). Mettere in pratica e credere come è successo ai discepoli a Cana.
Mervat Kelli, focolarina della Chiesa Siro Ortodossa
Ottava tappa
"Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli" (Mt 12,48)
La logica della parola di Dio non segue esattamente la nostra logica limitata e, in effetti, un esempio chiaro lo troviamo in questo versetto del vangelo di Matteo. Non è il colore della pelle, o un’appartenenza locale, nazionale o tradizionale, e nemmeno confessione religiosa, che crea la vera ed autentica fratellanza o la parentela ma, sentire e seguire la stessa passione e compassione per il Bello e il Buono. Un esempio di autentica fratellanza l’abbiamo visto realizzato tra i due leaders del mondo cattolico ed islamico, Papa Francesco e l’imam Ahmad al Tayyeb nella presentazione di un documento di grande valore storico e teologico, il documento sulla “Fratellanza umana, per la Pace Mondiale” che, il 4 febbraio del 2019, ha superato le modalità di dialogo utilizzate precedentemente, introducendo un nuovo modo di relazionarsi e comprendersi reciprocamente tra i componenti delle diverse espressioni religiose. Loro hanno realizzato una cooperazione esemplare per il bene comune, il bene di tutta l’umanità, quella stessa per il quale Gesù Cristo si è incarnato e morto sulla Croce secondo la fede cristiana, e quella stessa umanità per il quale il Corano invia il suo messaggero e profeta Mohammad per versare misericordia ed essere amore per il mondo (Corano, capitolo dei profeti, 107).
Basterebbe poter realizzare e mettere in pratica soltanto la prima frase dell’introduzione di questo storico documento per essere cristiani e musulmani validi, secondo i due maggiori teologi delle due religioni: “La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare. Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani, uguali per la Sua Misericordia, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere.”
Vorrei chiudere queste brevi parole con il 12.esimo versetto del capitolo 66 del Corano che emana luce, presentando una Pia Vergine Santa Donna come esempio di fede autentica per tutti gli uomini e le donne di tutti i tempi: Maria! Lei è la personificazione della Sapienza e della purezza, poiché incarna in sé l’abbraccio universale verso tutti e tutto, confermando la veridicità dei Libri di Dio (al plurale) e le sue infinite parole sparse nell’universo. Maria nel Corano è il fiore mistico nabatan Hasana e la vergine Santa da seguire come esempio, onde realizzare il progetto che Dio ha per ciascuna e ciascuno.

Nona tappa
Ecco tua madre (Gv 19,27)

Donna, ecco tuo Figlio. Ecco tua madre! Maria, la madre di Gesù, e Giovanni, il discepolo prediletto, sono allo stesso tempo due persone concrete e due modelli di fede.
Gesù, figlio unico di Maria, sa che sua madre avrà bisogno di essere circondata. Le dà quindi Giovanni, che si prenderà cura di lei. Non sarà sola nella sua casa, in quel terribile venerdì sera, in cui il suo cuore è stato sepolto insieme al corpo di suo figlio. Avrà un altro figlio, una nuova famiglia e nella loro relazione fraterna si inserirà colui che ha promesso al buon ladrone di stare con lui in paradiso. Sì, proprio oggi, promette anche a Giovanni e a Maria di realizzare già la sua parola: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro».
Ma Giovanni e Maria sono anche due modelli di fede. Il discepolo prediletto non è mai nominato nel Vangelo di Giovanni. È il modello del discepolo, che sta ai piedi della croce ed è anche il primo a credere che Gesù è risorto. Ognuno è chiamato a identificarsi con lui. Essere discepoli di Gesù crocifisso e risorto significa quindi stare ai piedi della croce e accogliere le prove con fede, guardando alla croce, sapendo che non sono l’ultima parola sulla nostra vita. Ogni prova è un passaggio verso la Vita, verso una comunione più profonda con Cristo risorto.
Martin Hoegger, Pastore riformato (Svizzera)
Decima tappa
La voglio rivedere in te
Sono entrata in chiesa un giorno
e con il cuore pieno di confidenza gli chiesi:
«Perché volesti rimanere sulla terra,
su tutti i punti della terra,
nella dolcissima Eucaristia,
e non hai trovato,
Tu che sei Dio,
una forma per portarvi e lasciarvi anche Maria,
la Mamma di tutti noi che viaggiamo? ».
Nel silenzio sembrava rispondesse:
Non l’ho portata perché la voglio rivedere in te.
Anche se non siete immacolati,
il mio amore vi verginizzerà
e tu, voi,
aprirete braccia e cuori di madri all’umanità,
che, come allora, ha sete del suo Dio
e della madre di Lui.
A voi ora
lenire i dolori, le piaghe,
asciugare le lacrime.
Canta le litanie
e cerca di rispecchiarti in quelle.
Chiara Lubich
